Nell’epoca dei social, del lavoro smart e dei freelance, sempre più spesso il singolo, l’individuo, vivono in una dimensione che è globale dal punto di vista della connessione digitale, ma isolata, circoscritta e limitata (ad uno smartphone, un tablet, un pc) sul piano pratico e reale. La tecnologia oggi consente infatti a molti di noi di lavorare da casa (o da qualsiasi altro luogo) pur appartenendo a realtà aziendali complesse e strutturate. Nello stesso tempo tendono ad essere più distaccate ed individuali anche le relazioni nell’ambito abitativo, sia per le esigenze e le dinamiche lavorative di ciascuno, sia per i ritmi più intensi delle nostre vite, al punto che, spesso, i rapporti con i nostri vicini si limitano al solo saluto di cortesia. A volte addirittura nemmeno a quello.

Questi due aspetti, uniti alla sempre più pressante urgenza di tutelare e salvaguardare il nostro pianeta e le risorse che ci offre, stanno aprendo la strada alla riscoperta della comunità e della condivisione, sia per quanto riguarda i luoghi di lavoro, sia per quelli dove abitare. Stanno infatti aumentando, in numero e dimensione, nuove realtà di coworking, cohousing e colinving in cui le persone lavorano, vivono, o lavorano e vivono in comunità, condividendo spazio, tempo e relazioni. Vediamo meglio in che cosa consistono.

Coworking

Coworking significa condividere uno spazio lavorativo comune con altre persone i cui impieghi sono indipendenti: impiegati di aziende diverse e lavoratori individuali come liberi professionisti, freelance e smartworker. Anche i settori di impiego possono essere differenti. Dal punto di vista fisico il coworking si svolge in spazi appositamente realizzati, dotati di postazioni per il lavoro individuale da computer e l’accesso ad Internet e, spesso, anche di banchi ed attrezzature per lavori di tipo artigianale. La scelta di lavorare in spazi di coworking porta con sé numerosi vantaggi. Innanzitutto consente a chi, per scelta o necessità, deve lavorare da casa o lontano dal proprio ufficio, di evitare l’isolamento dell’ambiente domestico e, nello stesso tempo, le distrazioni che questo può implicare. Il coworking, di conseguenza, permette anche, l’instaurazione di dinamiche sinergiche tra i lavoratori partecipanti: la condivisione degli spazi è infatti motore per lo scambio delle idee, delle energie, delle esperienze e per la creazione di rapporti e relazioni di carattere interpersonale e sociale. Infine ci sono gli aspetti legati all’economicità ed alla sostenibilità del coworking: infatti la condivisione di spazi ed attrezzature consente ai singoli lavoratori un notevole risparmio rispetto ai costi di gestione e manutenzione di un ufficio tradizionale e, nello stesso tempo, evita il consumo di risorse necessario a mantenere in attività tanti distinti e separati luoghi di lavoro destinati ciascuno a una persona o poco più. Questa prospettiva virtuosa e sostenibile di tutela e salvaguardia delle risorse del pianeta è alla base della progettazione e realizzazione di edifici per il coworking che potremmo definire green. Si tratta di edifici realizzati secondo i criteri della bioedilizia, del riuso e della riciclabilità, ad elevata efficienza energetica e a basso consumo. Potete trovare alcuni significativi e suggestivi esempi di edifici di questo tipo, in questo post .

Cohousing

Cohousing è sinonimo di abitare condiviso ed è una tipologia abitativa che prevede un complesso di abitazioni private con spazi comuni e servizi condivisi. Come per il coworking questo aspetto permette nello stesso tempo sia il risparmio ed i benefici economici ed ecologici dovuti appunto alla gestione comune di spazi e servizi condivisi, sia stimola ed alimenta la socializzazione e la creazione di relazioni interpersonali e di vicinato tra gli abitanti. I rapporti e la collaborazione tra i coabitanti iniziano spesso già prima della realizzazione delle residenze: essi infatti vengono coinvolti già nelle primissime fasi di ideazione e definizione degli edifici, grazie ad operazioni di progettazione partecipata, alla quale prendono parte i futuri abitanti – proprietari e tecnici esperti.

È proprio in questa prospettiva di sostenibilità economica, ambientale e sociale che risiede la principale spinta per la grande affermazione e la crescente diffusione di questa modalità abitativa. I complessi di cohousing sono in rapido e costante aumento nel mondo ma anche in Italia: nel nostro Paese sono stati già ultimati (o lo sono quasi) numerosi esempi di cohousing. Ne sono un esempio il Cohousing San Giorgio a Ferrara realizzato in X-Lam dallo studio Rizoma Architetture e premiato nel 2015 con il Green Building Solution Award. Il Mura San Carlo, il cosiddetto “condominio solidale” di San Lazzaro di Savena (Bologna), opera di TAMassociati sempre in X-Lam. Il COventidue, nel centro di Milano, prevede il recupero di un immobile preesistente, un edificio in stile Liberty dei primi del Novecento.

Coliving

Infine, dalla fusione – evoluzione di coworking e cohousing, negli ultimissimi anni, sta cominciando ad affermarsi una terza tipologia di condivisione, quella del coliving, unità residenziali dotate sia di spazi di lavoro in comune, sia di servizi condivisi. Si tratta quindi di luoghi che mettono a disposizione degli utenti sia quanto occorre per lavorare (una postazione, connessione ad Internet, laboratori, sale per riunioni) sia spazi e modalità per vivere, condividere esperienze e socializzare al di fuori dell’orario di lavoro. In una realtà in cui il mondo del lavoro ci obbliga a costante cambiamento e flessibilità, il coliving potrebbe rappresentare la soluzione. Il posto fisso dei nostri genitori sta infatti via via scomparendo (o più probabilmente l’ha già fatto) per lasciare spazio a situazioni di continua traformazione ed innovazione che impongono l’importanza di mantenersi sempre aggiornati e formati, di condividere idee, di confrontarsi, di essere connessi, la capacità e la possibilità di adeguarsi alle richieste del mercato, di potersi spostare, viaggiare, trasferire senza troppi vincoli. Ecco dunque che la possibilità di poter avere a disposizione luoghi in cui poter lavorare e vivere a 360°, già dotati di tutti i servizi e le attrezzature necessari e senza limiti di spazio e tempo sembrerebbe, ad oggi, proprio la risposta più efficace, che già alcune startup stanno perseguendo.

Nell’era geologica che stiamo attraversando, cosiddetta “antropocene” – ossia fortemente segnata dall’azione dell’uomo sul patrimonio naturale – anche l’architettura sta entrando in una nuova stagione.

Al centro di questa rivoluzione copernicana, principalmente, due aspetti: da un lato, la ricerca da parte dei progettisti di una empatica prossimità con i futuri fruitori dello spazio fisico preferibilmente rigenerato secondo un approccio integrato multidisciplinare e una visione olistica; dall’altro, la necessità e l’urgenza di un’azione interscalare comunque collettiva che metta al centro la tutela della biodiversità e la valorizzazione paesaggistica, accogliendo la dimensione sociale e culturale, in modo particolare dei territori fragili e marginali.

Tra gli architetti che più hanno compreso e rappresentato, nel recente passato, il cambiamento in nuce, non possiamo non citare Giancarlo De Carlo, per il quale non solo la partecipazione – per come assimilata dalla Scuola Scandinava – era un prerequisito essenziale per la successiva progettazione, che diventava in questo modo un modello di co-pianificazione; ma anche che l’architettura, non scissa dall’urbanistica, nelle sue declinazioni pratiche non agisse in contrasto con l’ambiente, ma anzi in armonia con essa.

Questa lezione, e in un certo senso l’eredità culturale e progettuale di De Carlo, nell’idea di voler creare una continuità tra passato, presente e futuro, ma anche nella consapevolezza che occorra saldare tradizione ed innovazione, sembra sia stata perfettamente acquisita da Mario Cucinella, curatore del Padiglione Italia dell’ultima Biennale d’Architettura di Venezia.

Se per De Carlo, infatti, era quasi un imperativo categorico provare a democratizzare l’architettura rendendola permeabile alle ibridazioni provenienti da altri saperi e a renderla accessibile ad un ampio pubblico; per Cucinella sembra sia urgente ecologizzare i processi che concorrano a produrre un’architettura di qualità, ontologicamente plurale, a cominciare dai linguaggi impiegati e dalle metodologie sperimentate.

Da verticale e, spesso, autoreferenziale, l’architettura, per Cucinella, rinasce dal basso dall’ascolto dei territori marginali come le aree interne e dalla produzione di innovazione sociale per una testimonianza orizzontale e circolare che nei paradigmi della sostenibilità socio-ambientale riverbera la sua nuova identità contemporanea.

Il Padiglione Italia, ribattezzato proprio per la sua vocazione Arcipelago, è organizzato in tre parti. Nella prima sono riconoscibili 8 itinerari che accolgono una settantina di progetti di architettura contemporanea distribuiti tra borghi, paesaggi e parchi, per rivelare la qualità diffusa dei paesaggi italiani. La seconda ospita l’esito di un rigoroso e approfondito studio condotto dal Cresme sulle evoluzioni demografiche e sociologiche del nostro Paese, tra spopolamento e cambiamento climatico. Nell’ultima, infine, sono presentati i 5 progetti di ricerca elaborati dai sei studi selezionati che hanno agito in cooperazione con università e attori locali.

Tra questi, particolarmente suggestivo è il progetto-processo che ha coinvolto il territorio della Foreste Casentinesi – situate tra l’Emilia e la Toscana, inserite nella lista del Patrimonio Unesco a luglio 2017 – con cui viene indagato il tema della foresta come sistema produttivo. Il legno, dunque, diventa protagonista assoluto della rinascita di un territorio. Il legno come materiale naturale che contribuisce allo sviluppo economico della comunità attraversata dal cambiamento e rigenerata socialmente.

Per la Biennale, quindi, il team selezionato ha previsto un edificio polifunzionale capace di accogliere più attività complementari nella valorizzazione massima degli spazi. La materità del legno incontra la fluidità delle superfici vetrate previste per favorire l’armonizzazione architettonica e l’inserimento nel contesto naturale dell’opera, secondo una armonia convergente tra esterno ed interno.

Il legno, tuttavia, e in generale i materiali naturali, come le tecnologie in grado di assicurare come risultato finale quello di avere architetture bioclimatiche energeticamente efficienti, caratterizzano tutto lo spazio espositivo allestito, nella volontà di illuminare quella parte di Italia che non si conosce, ma che è già realtà e che si punta a far diventare icona dell’Italia del futuro, o del diverso presente, che attende solo di essere abbracciato. Perché, oggi più che mai, l’architettura ha senso non solo se incontra e si fonda con la natura, ma anche e soprattutto se intercetta armonicamente ed empaticamente la cultura dei luoghi – la loro coscienza – per la loro solida e solidale valorizzazione.

Il Ministro dell’Ambiente, Sergio Costa, lo ha detto chiaramente: non possiamo più permetterci di sprecare il suolo e consumarne ancora grandi quantità, sottraendo superfici all’agricoltura, per realizzare nuove infrastrutture viarie o poli industriali e artigianali, spesso di dubbia utilità.

L’invito, rivolto soprattutto agli amministratori locali, ma anche ad imprenditori ed operatori della filiera delle costruzioni, è netto: bisogna puntare ed investire sulla rigenerazione urbana e territoriale, secondo un approccio integrato ed interscalare, che restituisca vitalità ed inclusività alle città.

Agire nella rigenerazione urbana, dunque, non significa – come pur sta avvenendo impropriamente in alcuni casi – andare a sigillare le aree interstiziali presenti nel tessuto consolidato che, anzi, andrebbero lasciate libere per favorire il regolare deflusso delle acque meteoriche.

Credere e scommettere nella rigenerazione urbana significa voler innestare sul territorio semi di innovazione sociale e di partecipazione transgenerazionale i cui frutti possano incidere sul nuovo metabolismo urbano: prima che un insieme di progetti, la rigenerazione urbana è un processo progressivo di co-creazione dal basso che potrebbe produrre scelte decisionali diverse da quelle attese in origine e che dovrebbero spingere alla riqualificazione architettonica ed energetica, oltre che alla rifunzionalizzazione per una più adeguata valorizzazione, dell’immenso patrimonio edilizio esistente nel nostro Paese.

Tali trasformazioni, poi, risulterebbero ancora più accattivanti ed intriganti, e iniziano ad esserci una pluralità di esperienze che confermano la bontà della direzione intrapresa, se realizzate con materiali naturali e riciclabili. Nell’esigenza non solo di applicare il paradigma dell’economia circolare alla città e alle pratiche urbanistiche, ma di provare a saldare armonicamente i principi dell’architettura, della cultura e della natura.

Alcune tra le più importanti operazioni di rigenerazione urbana sostenibile, da un punto di vista meramente applicativo, oggi prevedono l’uso del legno – con la giusta essenza individuata anche in ragione del contesto e, spesso, anche dell’effetto cromatico desiderato – in aggiunta al quale si considerano la canapa, il sughero, la lana di pecora. La crescita dei materiali naturali, esito di una sempre più profonda e diffusa consapevolezza che le risorse ambientali siano limitate e che occorra difendere la biosfera non avvelenandola più con i prodotti e gli scarti dell’economia fossile, è dovuta anche alla volontà di sempre più utenti di vivere in case o di agire in strutture salubri, dal riconoscibile benessere indoor per le certificate condizioni termo-igrometriche.

Una delle esperienze più innovative, in tal senso, si è avuta a Bisceglie, in provincia di Bari. In un’area contaminata dall’amianto e a ridosso della stazione ferroviaria, dopo le opportune operazioni di bonifica e di demolizione degli organismi edilizi fatiscenti, sono nate le Case di Luce.

Si chiama così l’edificio, progettato dagli architetti di Pedone Studio che – premiato nel 2016, durante la Cop 22 di Marrakech, con il Green Building Construction Award – si propone di diventare un modello replicabile ovunque, soprattutto nel clima mediterraneo (nel quale è peculiare il fabbisogno di un raffrescamento estivo adeguato), per il sistema tecnologico impiegato.

Tale green building, infatti, opportunamente ideato nel rispetto dei più rigorosi criteri dell’architettura bioclimatica, oltre alla scelta del legno, ha il suo punto di forza nel biomattone Natural Beton, certificato Leed: ossia in un mattone realizzato con canapa e calce che consente la notevole traspirabilità delle pareti e concorre all’elevato benessere indoor degli ambienti domestici. L’impiego di materiali naturali, unito ai migliori dispositivi per assicurare una alta e performante efficienza energetica, ha ridotto al minimo l’uso degli impianti, tra i quali riconosciamo quelli per la produzione di energia rinnovabile da fotovoltaico e di acqua calda sanitaria e la ventilazione meccanica controllata per il ricircolo dell’aria, nel rispetto della normativa vigente.

Sempre più statistiche e studi di settore lo confermano. L’edilizia green, negli ultimi anni e anche rispetto a quella tradizionale con ancora molti operatori della filiera che stanno facendo fatica ad innovare i loro processi produttivi, non solo sta continuando ad attraversare una entusiasmante “primavera”, ma sta accompagnando, perentoriamente, nel futuro l’intera industria delle costruzioni, da sempre particolarmente energivora e corresponsabile dei tassi di inquinamento che rivelano la rapidità di avvelenamento delle nostre città.

L’edilizia sostenibile, se ci si limitasse ad analizzare le stime dei nuovi green jobs, sta producendo, nel panorama internazionale e, quindi, anche nel nostro Paese, sia centinaia di migliaia di nuovi occupati (oltre 350mila negli ultimi 4 anni) sia, soprattutto, per benefici economici ed ambientali sistemici e di prospettiva, progressi strutturali nell’ambito delle tecnologie e dei materiali naturali impiegati per rendere le nostre città più vivibili e accoglienti e per conseguire, tra le altre cose, anche gli Obiettivi di Sostenibilità indicati dalle Nazioni Unite e che andrebbero raggiunti entro il 2030.

La più importante innovazione tecnica-tecnologica in ambito statico-architettonico, nell’ultimo decennio – anche nell’idea di spingere sempre più il paradigma della rigenerazione urbana e di contrastare, contestualmente, il fenomeno del consumo di suolo – è indubbiamente rappresentata dai grattacieli in legno, del quale, sul blog di Albertani Corporates, ci siamo già occupati e dei quali torniamo ad occuparci non solo in ragione di alcune recenti progettazioni o realizzazioni degne di nota, ma anche per l’indispensabile necessità di sottolineare ancora come il protagonista indiscusso di questo ultimo decennio sia il legno e come esso sia ormai universalmente riconosciuto come “il materiale per le costruzioni del XXI secolo”.

Il legno, infatti, oltre ad essere una essenza naturale rinnovabile e riciclabile che non trasferisce in atmosfera emissioni, come nel caso del calcestruzzo, ha innumerevoli proprietà fisiche e meccaniche, oltre ai suoi innumerevoli pregi estetici e virtù funzionali. Se da un lato, il legno garantisce ottime performance energetiche, più che rassicuranti prestazioni antisismiche e una migliore tenuta al fuoco, anche più dell’acciaio; dall’altro, oltre ad una sua intrinseca eleganza multi-applicativa dettata dalla sua versatilità, consente realizzazioni in tempi più rapidi e a costi certificati attraverso i sempre più accurati processi di industrializzazione.

La prefabbricazione, in particolare, vive in questi ultimi anni una stagione di grande evoluzione nella quale le sperimentazioni tecnologiche, per esempio sul Cross Laminated Timber (sovrapposizione di più strati di legno massiccio, incollati tra loro secondo specifiche angolazioni delle fibre), e le ibridazioni materiche (per esempio tra il legno ed altri materiali), stanno spingendo la filiera del legno verso inediti risultati qualitativi e quantitativi, nei dettami più rigorosi della sostenibilità ambientale e sociale.

Ma quali sono gli ultimi progetti che rischiano di innescare “la rivoluzione verticale” nelle nostre città italiane ed europee, oltre che nelle più grandi metropoli globali?

Giappone. Nella capitale Tokyo, se mai sarà realizzato entro il 2041 nel rispetto delle severissime norme antisismiche in vigore nel paese del Sol Levante, sorgerà il wood building più alto mai costruito: 350 metri, per 70 piani. Il monumentale edificio ribattezzato W350, al 90% in legno e al 10% in acciaio, presenterà una balconata che lo cingerà completamente lungo tutti e quattro i lati. Per realizzarlo su una superficie complessiva della base di 6500 mq, secondo le stime ad oggi disponibili, occorreranno quasi 185mila metri cubi di legname.

Canada. In attesa della realizzazione nipponica, il Premio Pritzker Shigeru Ban, nella città di Vancouver, ha firmato il progetto del grattacielo Terrace House, ad oggi l’edificio in legno più alto del mondo con i suoi 71 metri distribuiti su 19 piani. La torre, nata dalla capacità dell’architetto giapponese di sperimentare geometrie e materiali per risultati inattesi e sorprendenti, si configurerà, perciò, come una delle costruzioni più innovative del mondo. La sua modernità, nello specifico, deriverà dall’uso di sofisticati sistemi di domotica e per il raffrescamento/riscaldamento per il raggiungimento dei più alti standard di benessere indoor. Da un punto di vista architettonico, invece, Ban ha optato per forme triangolari e materiali naturali, facendosi ispirare dal contiguo e storico edificio del 1971 di Arthur Erickson con il quale, attraverso delle terrazze, ha voluto creare un collegamento. Per l’intelaiatura, infine, oltre al legno locale, sono stati impiegati sia l’acciaio sia il calcestruzzo. Sempre a Vancouver, inoltre, l’architetto Michael Green ha progettato le due torri, alte trenta metri, del “Tall Wood Buildings”.

Francia. L’architetto francese Jean-Paul Viguier ha vinto il concorso per un edificio a destinazione mista (residenze e uffici) a Bordeaux, costituito da tre torri in legno, la più alta delle quali – la Torre Hyperion – raggiungerà i 57 metri. L’edificio, la cui consegna prevista è per il 2020, sarà realizzato con strutture prefabbricate utilizzando pannelli massicci di legno laminato che, secondo l’architetto, consentiranno alle famiglie di intervenire con facilità per adeguare le abitazioni al cambiare delle esigenze di vita.

Italia. A Jesolo, per l’estate 2019 se le previsioni saranno confermate, in queste “olimpiadi della verticalità” partecipate dai migliori architetti esperti della materia, sarà pronto il più grande grattacielo in legno d’Europa, il “Cross Lam Tower”. L’intervento, progettato da Simone Gobbo, Alberto Mottola e Davide De Marchi – vincitori nel 2015 del premio Young Italian Architects – ha previsto un investimento di oltre 10 milioni di euro per questo edificio che si svilupperà per 12 piani. La torre, che sarà realizzata secondo gli standard più evoluti della bioedilizia, punta sul mixité funzionale e su alte performance di efficienza energetica, oltre che di benessere indoor.

Le città occupano solo il 2% della superficie globale, ma per il loro sostentamento impiegano i tre quarti delle risorse disponibili, con un bilancio socio-ambientale che potrebbe peggiorare entro il 2050, quando oltre il 70% della popolazione mondiale vivrà negli spazi antropizzati per definizione. È fondamentale, quindi, agire già da oggi per mitigare gli effetti e gli impatti di tutte quelle attività umane o processi industriali ad alto consumo energetico – come l’edilizia o l’architettura – e ad alto rischio climatico che incidono sulla qualità della vita.

Occorre considerare, dunque, nella fase di transizione ecologica che stiamo attraversando, l’urgenza, da un lato, di convertire i processi e le tecnologie, orientandoli verso uno sviluppo realmente sostenibile; dall’altro, di ricorrere a materiali naturali e riciclabili, quando non già riciclati, adottati in ottemperanza alle nuove prescrizioni comunitarie sull’economia circolare.

In questo scenario assolutamente fluido e di metamorfosi strutturali nel quale l’uomo si riscopre coinvolto in una relazione armonica con la natura, il rifugio principe per ciascuno di noi, la casa, anche per le continue sperimentazioni tecnologiche e diffuse pratiche ecologiche, viene radicalmente ripensata e ridefinita.

Non solo da luogo permanente di accoglienza che si fa temporaneo, da spazio ampio e quasi monofunzionale che si riduce nei metri quadri per modificate esigenze d’uso ed economiche senza perderne in intimità; ma anche per la possibilità crescente di impiegare per la loro costruzione materiali naturali ecocompatibili che ne elevino la qualità, la vivibilità, la durabilità.

Oltre al legno, infatti, che continua ad essere sulla cresta dell’onda e che punta a confermarsi come “materiale del secolo” per le sue performanti peculiarità, stanno conoscendo una rapida affermazione e diffusione sia la canapa, sia il cartone. E non soltanto come materiali isolanti, ma proprio da costruzione. Da potersi impiegare da soli o in combinazione, in modo particolare, con il legno o anche con l’acciaio (nel caso del cartone).

Il cartone, tra i cui primi utilizzatori troviamo l’architetto giapponese e Premio PritzKer 2014 Shigeru Ban, non è solo leggero, flessibile, naturale, riciclabile ed economico – e basterebbe questo per prenderlo seriamente in considerazione – ma, opportunamente lavorato con appositi macchinati e mediante collanti naturali, nella versione pressato o ondulato, garantisce una buona resistenza statica e una discreta resilienza ignifuga. Il nostro Paese, ad oggi, può presentare un paio di esperienze virtuose che iniziano a farsi conoscere e apprezzare anche oltre confine.

La prima, ispirata dall’entusiasmo e dalla tenacia di quattro giovani professionisti, nasce a Catania e per merito della startup siciliana Archicart che, dopo alcune iniziative pilota sperimentali, ha brevettato un proprio sistema costruttivo per realizzare case ad alta industrializzazione low cost in cartone facilmente assemblabili in cantiere. La giovane azienda, nell’idea di sfruttare e valorizzare le potenzialità del materiale, realizza allestimenti per fiere e padiglioni per esposizioni, attraverso le quali si propone di sensibilizzare la filiera delle costruzioni a scoprire le opportunità offerte dall’uso sostenibile del cartone in edilizia.

Sull’esempio di Shigeru Ban, per il quale spesso sostenibilità e solidarietà sono le due facce della stessa medaglia (si pensi alla nuova Concert Hall inaugurata nel 2011 a L’Aquila e realizzata integrando il cartone all’acciaio), lo scorso anno a Milano, su iniziativa dell’artista e designer Maurizio Orrico, sono state realizzate alcuni piccoli rifugi temporanei, impermeabili ed ignifughi, per i senza fissa dimora della stazione centrale. Queste soluzioni abitative, che pesano circa 10 kg e che sono quasi istantaneamente fruibili una volta collocate sul sedime individuato, rappresentano un ulteriore esempio di come potrebbero essere affrontate nelle nostre città le più gravi condizioni di marginalità, ma anche come potrebbero essere sanate, nella prima fase emergenziale postevento, le profonde ferite provocate dai disastri naturali come i terremoti o le alluvioni.

Sulla scena internazionale, infine, va citata l’esperienza esemplare dello studio d’architettura olandese Fiction Factory che, progettando nei dettami della bioarchitettura, ha ideato “una mini-casa di cartone che dura 100 anni”. Il prototipo, battezzato Wikkelhouse che significa letteralmente “casa incartata”, prevede l’uso sapiente del cartone ondulato, con moduli – rivestiti internamente in legno e ricoperti esternamente da una pellicola traspirante e impermeabile – assemblabili in cantiere in due giorni e concepiti per essere, a seconda delle esigenze dell’utente, assolutamente personalizzati.

Con l’avvicinarsi della stagione estiva e delle temperature più calde che questa porta con sé, tendono ad aumentare anche i consumi dovuti alla maggiore accensione degli impianti di condizionamento e raffrescamento artificiali. Questo produce, di conseguenza, un maggiore dispendio di energia e di risorse oltre al notevole aumento dei costi delle bollette: al giorno d’oggi, infatti, non ci stupiamo più di fronte al fatto che si spende di più per raffrescare che per riscaldare.
Tra le soluzioni in grado di ovviare a questo problema, e quindi di agevolare il nostro portafogli, vi è la scelta di una casa prefabbricata in legno, progettata e realizzata a regola d’arte. Infatti, come già avevamo evidenziato in questo post di qualche settimana fa, benché l’edilizia residenziale in legno sia nata ed abbia avuto, storicamente, maggiore diffusione soprattutto in quelle regioni e zone caratterizzate da climi più freddi, essa è comunque in grado di garantire prestazioni sempre ottime in qualsiasi contesto ed a qualsiasi temperatura.

Vediamo quindi, più nel dettaglio, le peculiarità e le caratteristiche che una casa in legno deve avere per poterci garantire un ambiente domestico fresco e confortevole anche in estate e senza bisogno di ricorrere a costosi ed energivori sistemi di condizionamento artificiale.

Sfruttamento dello sfasamento termico

Quando si progetta una casa destinata a luoghi con climi dalle caratteristiche mediterranee, è fondamentale innanzitutto definire un involucro edilizio in grado di costituire un freno alla penetrazione del calore dall’esterno all’interno dell’ambiente domestico. Dal punto di vista tecnico questo fenomeno fisico è detto sfasamento termico e consiste appunto nella misura del tempo durante il quale un materiale (o un pacchetto di materiali) è capace di impedire il passaggio del calore. I tamponamenti esterni di un edificio devono quindi, se adeguatamente progettati, essere in grado di resistere al calore in entrata per le ore più calde della giornata e di tornare a raffrescarsi quando le temperature scendono.
Da questo punto di vista, la scelta di tecnologie e di sistemi costruttivi basati sull’utilizzo del legno consente innanzitutto di impiegare un materiale che già per sua natura assicura ottime capacità isolanti e, in secondo luogo, di sfruttare la massa dell’involucro stesso: è il caso dell’X – Lam, strutture prefabbricate realizzate attraverso l’impiego di pareti piene e massicce alternate a strati di isolamento a cappotto.

Il cappotto e la scelta dell’isolamento

La presenza dell’isolamento termico a cappotto è fondamentale per proteggere gli ambienti interni da qualsiasi temperatura esterna, sia da quelle rigide invernali, sia da quelle calde della stagione estiva. Tuttavia, per ottimizzare le prestazioni che si richiedono all’involucro dell’edificio in funzione delle condizioni climatiche specifiche del luogo, è essenziale scegliere bene il tipo e la densità dell’isolante da impiegare: infatti gli isolanti a bassa densità (o leggeri), come la lana di roccia o la lana di vetro, sono più adatti a proteggere l’ambiente domestico dal freddo invernale, mentre per impedire il surriscaldamento interno dovuto al caldo estivo, si consiglia l’utilizzo di materiali isolanti ad alta densità e con buona inerzia termica. Tra questi spicca, ad esempio, la fibra di legno ad elevata densità, un coibentante di origine naturale (e sostenibile) dalle prestazioni ottime soprattutto nei confronti delle onde di calore estive e dotato di buone caratteristiche di massa.

Case in legno per tutte le stagioni

Questi aspetti, uniti alle comuni regole della buona progettazione (volume, forma e distribuzione dell’architettura, orientamento ed esposizione, dimensione e disposizione di sporti ed aperture, ecc.), consentono quindi la realizzazione di case prefabbricate in legno adatte a qualsiasi contesto climatico, anche a quello variegato e prevalentemente caldo che caratterizza la nostra penisola. Inoltre la scelta dei sistemi costruttivi in legno e, in particolare, di quelli basati sull’impiego dell’X – Lam, risulta preferibile nelle zone mediterranee in quanto garantisce, proprio nei confronti del caldo, prestazioni nettamente migliori di quelle registrate dai materiali e dalle tecnologie tradizionali.
Aggiungiamo infine le caratteristiche della traspirabilità e della igroscopicità proprie del legno, che garantiscono all’interno degli ambienti domestici il massimo comfort e benessere (sull’argomento vedi anche il post Legno e comfort abitativo: esiste una relazione?).
Quindi prefabbricazione in legno sì e, soprattutto, non solo per costruire baite o case invernali, ma abitazioni per tutte le stagioni e condizioni.

Si sta diffondendo anche in Europa, lentamente, ma progressivamente. Per la sua ampia versatilità d’uso – dall’edilizia al design, dall’accessoristica per auto ai mezzi di trasporto, dall’agricoltura all’enogastronomia – il bambù sta conoscendo, negli ultimi anni, una popolarità mai avuta finora in Europa.

Il suo successo, come testimoniano le diverse sperimentazioni oggi disponibili, non deriva solo dalla sempre più larga e robusta consapevolezza ecologica sulla finitezza delle risorse naturali, nell’urgenza di migrare verso soluzioni rinnovabili, ma anche dalla maggiore conoscenza delle sue proprietà meccaniche e fisiche che ne consentono l’eterogeneità funzionale. Oltre ad essere particolarmente performante alla trazione e alla compressione, con una resistenza ben superiore al calcestruzzo e all’acciaio – tanto da essere ormai universalmente riconosciuto come “l’acciaio verde” (la resistenza può sfiorare i 12.000 kg/cmq!) – del bambù sorprende la leggerezza e l’elasticità, ma anche l’economicità, dovuta alla rapidità con cui cresce.

Il suo fitto apparato radicale costituisce, inoltre, una barriera naturale a rischi di smottamento, frana, dilavamento del suolo. È un alleato strategico, dunque, non solo contro i terremoti, ma anche per la mitigazione del rischio idrogeologico. Le foglie di un bosco di bambù, inoltre, assorbono anidride carbonica e rilasciano ossigeno come poche altre specie naturali.

Tutte queste virtù, soprattutto in America Latina, hanno permesso che questa pianta, dopo alcuni drammatici alluvioni o terremoti, fosse impiegata per la realizzazione di soluzioni abitative temporanee d’emergenza per ristorare le centinaia di migliaia di sfollati. Nato, secondo la letteratura scientifica, in Cina e poi nel corso degli ultimi secoli diffusosi enormemente in tutto il continente asiatico fino a raggiungere proprio l’America Latina, il bambù è costituito da fibre di cellulosa inserita in una matrice di lignina. Le sue dimensioni sono variabili: alcuni esemplari possono essere alti pochi centimetri; altri, invece, possono raggiungere i 40 metri di altezza e i 30 centimetri di diametro.
Il bambù, presente in natura con più di 1200 varietà diverse (con la tipizzazione dovuta anche all’area geografica nella quale nasce la pianta), ha una crescita spontanea e rapida: a certe latitudini e a seconda della tipologia della pianta, anche 55 cm al giorno. Il bambù, oggi coltivato anche nel nostro Paese con bambuseti presenti in Toscana e in Emilia-Romagna, può essere tagliato ed impiegato già dopo 3-5 anni di vita e non ha bisogno di essere seminato, annaffiato o concimato.

Con questo materiale naturale e rinnovabile, tuttavia, si realizzano non solo abitazioni temporanee: per l’ausilio delle nuove conoscenze e tecnologie agro-botaniche, orientate a preservarne e a valorizzarne la crescita, oggi con il bambù – sempre più spesso abbinato al legno – sono edificate architetture permanenti (a sviluppo pressoché orizzontale), sia a carattere residenziale sia per uffici. È il caso, per esempio, dello Stam Europe Green Place – realizzato a Milano dallo studio Goring&Straja – che presenta una facciata completamente rivestita da un brise soleil in bambù, che favorisce tanto la ventilazione quanto l’illuminazione naturale con una continuità tra esterno ed interno.
In Europa, come dimostrano le esperienze innovative degli ecoquartieri nati tra Amburgo e Friburgo, è sempre la Germania a guidare la locomotiva delle green buildings. Nel Paese anglosassone, infatti, dopo la fortunata sperimentazione del “Padiglione Zeri” all’Expo 2000 di Hannover a cura dell’architetto Simon Velez (poi emulata da Vo Trong Nghia nell’Expo 2015 di Milano con il “Padiglione del Vietnam”), sono stati realizzati alloggi sociali in acciaio e bambù in grado di saldare tradizione ed innovazione, eleganza architettonica ed efficienza energetica. Sempre a Milano, invece, va ricordata la prestigiosa passerella della Triennale, un’opera realizzata da Albertani Corporates s.p.a. su progetto del designer Michele De Lucchi. A collegamento tra il grande atrio centrale del museo posto al primo piano e l’ingresso, la passerella costituisce un oggetto unico nel suo genere: si tratta infatti di una trave unica in lamellare di bambù composta da listelli tenuti insieme da una speciale colla appositamente prodotta.

Oltre a Shigeru Ban (Premio Pritzker nel 2014), anche un altro grande architetto giapponese ha impiegato il bambù nei suoi progetti: Kengo Kuma, infatti, tra il 2002 e il 2004, nella campagna di Pechino a ridosso della Grande Muraglia, ha visto sorgere la “Great Bamboo Wall” capace di integrarsi perfettamente ed armonicamente con il territorio.
Tra le costruzioni globali degne di note, infine, oltre al ponte pedonale di 18 metri progettato in un piccolo centro dell’Indonesia dal collettivo di Architetti senza Frontiere e assemblato in loco con la partecipazione proattiva della comunità locale, va citata la scuola buddista internazionale di Panyaden in Thailandia per essere stata edificata solo con materiali naturali, anche per una funzione pedagogica. La struttura prefabbricata, sormontata da un articolato traliccio strutturale in bambù lasciato a vista in grado di coprire una luce di 17 metri, ha una estensione di quasi 800 mq e può ospitare un massimo di 300 persone.

In ambito edilizio, il legno è ormai universalmente riconosciuto come il materiale sostenibile per eccellenza, in virtù delle caratteristiche e delle prestazioni che più volte abbiamo approfondito all’interno del blog: isolamento termo – acustico, naturale regolazione dell’umidità, resistenza, sicurezza, traspirabilità, salubrità.
A questi aspetti vanno inoltre aggiunti anche tutti quelli derivanti dal fatto che il legno è innanzitutto una materia prima naturale, rinnovabile, riciclabile ed il cui ciclo di produzione e lavorazione (laddove eseguito in conformità con le prescrizioni normative) si svolge nel rispetto dell’ambiente.

Nonostante questi aspetti abbiano un indubbio valore positivo, c’è un’argomentazione ricorrente che spesso gli viene contrapposta, una domanda che, molto frequentemente, viene rivolta a coloro che operano nell’ambito dell’edilizia in legno: come può, questa tanto celebrata sostenibilità del legno (e, di conseguenza, dell’edilizia in legno) conciliarsi con il problema della deforestazione e dello sfruttamento incontrollato del patrimonio forestale mondiale?

Le risorse boschive controllate

La risposta a questa domanda è in realtà molto semplice, dal momento che le aziende impiegate in questo settore attingono la materia prima di cui hanno bisogno, da risorse boschive controllate e gestite in maniera sostenibile. La loro attività non va quindi ad intaccare, danneggiare o depauperare in alcun modo il patrimonio verde del pianeta.
Il legno destinato ad alimentare le aziende che operano nell’ambito dell’edilizia, dell’arredamento, della carta, ecc. viene infatti appositamente prodotto e sistematicamente rinnovato, all’interno di siti forestali accuratamente controllati (sia dal punto di vista qualitativo che quantitativo) e gestiti responsabilmente proprio a tale scopo: qui gli alberi sono numerati e, periodicamente, si provvede alla sostituzione degli esemplari più anziani con altri più giovani ed efficienti dal punto di vista della fotosintesi clorofilliana e, di conseguenza, della depurazione dell’atmosfera dall’anidride carbonica (che, in questo modo, viene mantenuta sempre al massimo livello).

La certificazione di Gestione Forestale Sostenibile (GFS) e la catena di custodia (CoC)

A tutela e garanzia del rispetto e della conservazione delle riserve boschive mondiali, da diversi anni sono attivi degli enti di carattere internazionale che si occupano di verificare con obiettività che il legno impiegato su scala industriale, in tutti i settori e le attività che ne costituiscono la filiera (edilizia, arredamento, cellulosa, carta, ecc.), sia effettivamente prodotto e lavorato in conformità ai criteri della sostenibilità ambientale, economica e sociale e nel rispetto della legalità e delle convenzioni sulla tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori e delle popolazioni indigene coinvolte. In questi casi si può parlare di Gestione Forestale Sostenibile (GFS), riconosciuta attraverso il rilascio di una certificazione che attesta che la gestione di un territorio o di un’area boschiva risponde, appunto, ai requisiti sopra citati. La sua importanza è fondamentale in quanto garantisce al consumatore che i prodotti di origine forestale (legno o derivati) che acquisterà derivano proprio da foreste gestite in maniera legale e sostenibile invece che dallo sfruttamento illecito o irresponsabile del territorio.

Il legno o gli altri prodotti derivati provenienti da boschi e foreste con certificazione GFS possono essere marchiati, rimanendo quindi sempre rintracciabili nelle diverse fasi di trasformazione e lavorazione che subiscono, fino all’immissione in commercio. In questi casi si ha a che fare con un secondo tipo di certificazione, detto Chain of Custody (CoC) o catena di custodia.

Gli schemi di certificazione del legno

Gli schemi di certificazione riconosciuti a livello mondiale e più utilizzati allo scopo di consentire il riconoscimento dell’origine e la tracciabilità del legno e garantirne, nello stesso tempo, la reale sostenibilità, sono l’FSC e il PEFC. Entrambi verificano la gestione controllata e responsabile delle foreste e sono “ugualmente in grado di fornire garanzia al consumatore che i prodotti certificati a base di legno e carta derivino da gestioni forestali sostenibili”, come sancisce la risoluzione INI/2005/2054 del 16/02/2006 del Parlamento Europeo.
La certificazione FSC (Forest Stewardship Council) è una “certificazione internazionale, indipendente e di parte terza, specifica per il settore forestale e i prodotti – legnosi e non legnosi – derivati dalle foreste” (Fonte: www.fsc.org). Presuppone una gestione forestale rispettosa dell’ambiente, socialmente utile ed economicamente sostenibile, che viene misurata e verificata in base al rispetto di 10 princìpi.

La certificazione PEFC (Programme for the Endorsement of Forest Certification) nasce invece come alternativa all’FSC, allo scopo di fornire uno strumento di verifica più flessibile ed adeguato al contesto europeo ed a proprietà forestali di dimensioni minori. Per ottenere la certificazione PEFC il legno ed i suoi derivati destinati alla filiera devono essere prodotti nel rispetto di princìpi basati innanzitutto sul rispetto del contesto naturale e della biodiversità, sulla tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori e delle popolazioni indigene e su criteri di rimboschimento, rinnovamento e rigenerazione degli esemplari arborei.

“Non ci sono più i lavori di una volta”. E meno male, verrebbe da dire confutando questo vecchio adagio popolare, ancora oggi pronunciato nostalgicamente da chi guarda al passato e non riesce a proiettarsi ottimisticamente nel futuro. La crisi economica, che finalmente sembra ci si stia lasciando alle spalle, per la sua dimensione endemicamente strutturale, ha sbriciolato certezze granitiche e cancellato competenze plastiche, aprendo le strade dell’avvenire. Per un “mondo nuovo”, nel quale paradigmi come la sostenibilità ambientale e sociale o l’innovazione culturale e dei processi industriali hanno incontrato l’adesione di tanti. Sulla scia della consapevolezza che i nuovi modelli potessero portare, contemporaneamente, benefici etici, economici ed ecologici.

La parola “crisi”, che deriva dal greco, significa opportunità. Ed ha rappresentato, pertanto, per centinaia di migliaia di persone, non solo giovani, la possibilità di ricostruire la propria quotidianità. A partire proprio dal lavoro, che la nobilita e la qualifica. Con la diffusione delle nuove tecnologie digitali e l’affermazione delle economie sociali e civili orientate a dare valore a processi come la condivisione, non solo i vecchi lavori sono stati reinterpretati, ma sono nati, soprattutto, nuovi lavori, il cui tratto di originalità risiede sia nelle forme in cui è realizzato sia nei luoghi.

Proprio dal bisogno, per tanti, di saldare la necessità di disporre con una bassa spesa di una postazione funzionale per lavorare, non disponendo delle risorse per un ufficio “tradizionale”, con la possibilità di farsi contaminare intellettualmente da saperi diversi dai propri presenti nel medesimo spazio, sono nati, sempre più frequentemente in architetture industriali o civili riqualificati e ammodernati secondo i parametri della bioedilizia, i co-working. Da “semplici” luoghi per il lavoro condiviso, negli anni, per il successo che in Europa e nel mondo hanno avuto, sono diventate polarità sempre più flessibili e permeabili nella volontà di accogliere tutti quei servizi solitamente extra-professionali di cui lo smart worker può aver bisogno: oltre alla cucina o alla sala riunione, oggi in molti hub è possibile trovare una palestra, una sala giochi, un cinema-auditorium. Con molti hub oggi scelti anche per le soluzioni eco-friendly adottate per l’arredo, per la dotazione impiantistica e l’alta vivibilità garantita. Vediamo, quindi, alcuni esempi virtuosi.

Londra. Tra gli innumerevoli coworking diffusi nella capitale inglese, quello che ultimamente ha suscitato nel panorama internazionale maggior clamore è stato “TreeXOffice”. Questo progetto, infatti, a carattere temporaneo, nasce con la volontà di stimolare i cittadini a vivere maggiormente le aree verdi per rendere produttivi i parchi urbani. Le otto postazioni sono state realizzate su una piattaforma, che ruota attorno ad un tronco di albero, costituita da pannelli in policarbonato traslucido apribili così da far entrare la luce e l’aria.

Lisbona. La capitale del Portogallo ospita quello che, probabilmente, è oggi il coworking più ecologico del nostro continente. “Second Home”, infatti, realizzato dallo studio architettonico SelgasCano, oltre a nascere dalla riqualificazione del Mercado da Ribeira (1100 mq) del quale è stata conservata integralmente la copertura con le sue capriate di ferro a vista, prevede un sistema di servizi (caffetteria, biblioteca, cinema, sala benessere) volti a creare sia convivialità sia una diversa professionalità per una maggiore creatività e imprenditorialità. Al centro dell’open space luminoso e colorato, un banco extralarge lungo ben 70 metri dalla forma sinuosa – abbracciato da un migliaio di diverse piante autoctone capaci di assorbire inquinamento indoor e rumore – per favorire sinergie e lavori di gruppo, ma anche l’adeguata privacy per concentrarsi sulla propria attività.

Hong Kong. Il più grande hub professionale-sociale della città, il CoCoon, ha nella sostenibilità ambientale il suo più efficace bigliettino da visita: il pavimento è stato realizzato prevalentemente in bambù, le luci sono a led, le pareti sono dipinte con vernici naturali e atossiche, l’inquinamento indoor è fortemente ridotto dalla diffusa presenza di piante che rendono, inoltre, l’open space più accogliente e rilassante per una esperienza del lavoro più produttiva.

Denver. Negli Stati Uniti, tra gli oltre 900 coworking presenti, merita una menzione d’onore il “GreenSpace” di Denver. È un hub, infatti, che ha adottato e sperimentato la filosofia dell’economia circolare: oltre ad essere costruito con materiali ecosostenibili e aver installato oltre 160 pannelli solari sul tetto per compensare il 100% del consumo di energia, ha previsto un punto di raccolta e riciclo dei rifiuti elettronici. Anche qui, poi, le diverse postazioni, inserite in un contesto conviviale, sono circondate da piante autoctone che contribuiscono alla riduzione dell’inquinamento indoor per una più alta salubrità dello spazio condiviso.

Milano. Nella capitale economica del Paese, oltre al prestigioso “Copernico” che ha ricevuto la certificazione americana di sostenibilità aziendale Leed Platinum per la radicale attenzione anche al ciclo di vita dei materiali impiegati per la realizzazione di questo spazio nel quale si integrano la sostenibilità ambientale e l’innovazione socio-digitale, ma citata anche l’esperienza di “inEDI”. Negli oltre 900 mq disponibili, sono state realizzate circa cinquanta postazioni per i professionisti. L’energia elettrica della struttura proviene da fonti rinnovabili e tutti gli arredi interni sono realizzati con materiali riciclati. Tra i tanti offerti, un servizio particolarmente apprezzato dai fruitori di questo spazio molto confortevole è la possibilità di disporre del bike sharing per spostarsi in città in modo ecologico e sostenibile.

L’ondata di freddo eccezionale che in questi giorni ha colpito l’Italia ci ha spinto a voler riflettere e fissare qualche punto sul tema casa in legno e neve.

La neve, la soffice coltre bianca e silenziosa in grado di rendere magico ogni paesaggio e di farci tornare tutti un po’ bambini, da sempre costituisce un elemento con cui l’uomo e le sue esigenze abitative hanno dovuto confrontarsi, specialmente nei contesti geografico – territoriali caratterizzati da maggiori latitudini e da elevate altitudini. L’architettura tradizionale di questi luoghi da sempre testimonia lo stretto connubio che sussiste tra la presenza di climi molto freddi e rigidi e l’impiego del legno per la realizzazione delle abitazioni.

Perchè il legno?

Le motivazioni che rendono così stretto e duraturo il rapporto tra clima freddo e case in legno è dovuto sia a questioni pratiche, vale a dire la grande disponibilità e reperibilità di tale materiale in questi contesti, sia alle ottime prestazioni che esso è in grado di assicurare dal punto di vista dell’isolamento termico e della resistenza. L’impiego del legno infatti ha da sempre consentito la realizzazione di ambienti domestici caldi e confortevoli, in grado di mantenere il calore interno senza dissiparlo ed impedendo, nello stesso tempo, alle basse temperature esterne di penetrare.

L’utilizzo del legno unito agli accorgimenti tecnologico – costruttivi propri delle tradizioni locali garantisce inoltre ambienti asciutti, privi di umidità e sicuri, come i basamenti in pietra tipici delle baite alpine di alta quota o l’elevata pendenza delle falde atta ad impedire l’accumulo di neve.

Qualche esempio

L’impiego del legno e dei materiali locali e l’applicazione di quegli accorgimenti che, nei secoli, hanno reso confortevoli ed efficienti le case in legno in contesti climatici freddi, non costituiscono tuttavia un limite alle scelte architettoniche ed estetiche, né vincolano progettista e committente alla mera ripetizione dell’esistente . Ad oggi sono infatti numerosi gli esempi di case in legno dal design contemporaneo: si tratta di edifici che nascono dallo studio e dall’approfondimento di quelli tradizionali, ma che nello stesso tempo li declinano in maniera nuova.

Peter Zumthor, Oberhus, Unterhus e Türmlihus, Leis (Svizzera). Si tratta di tre edifici residenziali gemelli situati a Leis, nel Canton Grigioni (Svizzera): i primi due, Oberhus (residenza dello stesso Zumthor e Signora) e Unterhus, risalgono al 2009, mentre Türmlihus è stato ultimato nel 2013. In queste tre realizzazioni l’architetto Pritzker Prize fa propri i materiali e le tradizioni costruttive locali, fondendoli ad un design dal sapore contemporaneo. Le tre abitazioni sono costruite interamente in legno di pino del luogo (sia all’interno che all’esterno), attraverso l’impiego di sistemi prefabbricati assemblati in loco e presentano grandi vetrate che da un lato massimizzano il rapporto con la natura e con il paesaggio circostante e dall’altro rendono i tre edifici dei veri e propri volumi luminosi sospesi. Tutte e tre le abitazioni sono distribuite su tre livelli per un totale di circa 140 mq di superficie ciascuna ed ospitano elementi di arredo e sistemi illuminanti che vantano la firma delle grandi celebrities del design internazionale: Citterio, Arne Jacobsen, Eero Saarinen, lo stesso Zumthor.

Reiulf Ramstad Arkitekter, Split View Mountain Lodge, Geilo (Norvegia). Si tratta di una casa unifamiliare per vacanza, situata in Norvegia nella Valle di Hallingdal, nota destinazione sciistica. L’edificio si configura come un volume composto che segue e si adatta alle forme naturali ed ai dislivelli del paesaggio. È rivestito interamente in legno, sia all’interno che all’esterno e, come per le tre case di Zumthor, presenta grandi vetrate che sanciscono la profonda continuità tra il paesaggio naturale e l’ambiente domestico.

Il progetto riprende le tecniche costruttive e le scelte materiche proprie della tradizione norvegese, pur attraverso scelte formali contemporanee e pur assicurando il rispetto del paesaggio e del contesto.

CON3STUDIO, Camelot, Cesana Torinese (Italia). Camelot è uno chalet contemporaneo immerso tra le montagne al confine tra Italia e Francia. È realizzato interamente in legno e vetro, con un basamento in cemento armato su cui poggia la struttura portante in legno lamellare prefabbricato. I tamponamenti esterni garantiscono livelli di isolamento termico elevatissimi: questo, unito all’impiego di fonti di energia rinnovabile e a sistemi impiantistici a basso consumo, garantiscono la quasi totale autonomia energetica.

EM2 Architekten, Casa di caccia Tamersc, San Vigilio di Marebbe (Italia). Questo piccolo intervento si inserisce all’interno del Parco Naturale Fanes – Sennes – Braies e sostituisce una vecchia casa di caccia risalente agli anni Cinquanta. Il progetto consiste in due edifici di diverse dimensioni, rispettivamente uno adibito ad abitazione ed uno a piccolo rifugio. Sono entrambi in legno e con copertura a due falde, per riprendere i principi architettonici della tradizione locale: anche in questo caso le due strutture presentano poche ma grandi aperture vetrate che enfatizzano il rapporto con la natura e con il paesaggio circostante.