,

La sfida ecologica della rigenerazione urbana

“La città è una stupenda emozione dell’uomo. La città è un’invenzione, anzi: è l’invenzione dell’uomo”.

Far riecheggiare questa riflessione dell’architetto Renzo Piano nel “paesaggio” della nostra immaginazione può servire per orientarci nell’esplorazione del tema della rigenerazione urbana.

La necessità di contenere l’espansione del tessuto antropizzato e quella di riqualificare il patrimonio costruito derivano, infatti, da un combinato disposto di motivazioni politiche-economiche da un lato e sociali-ambientali-culturali dall’altra. Le città, che secondo le stime dell’Onu potrebbero ospitare fino a 9 miliardi di persone entro il 2050 (ossia, oltre l’80% della popolazione globale), nell’ultimo decennio sono state travolte da due fenomeni globali: la crisi economica-finanziaria e i cambiamenti climatici. Due processi che, per il loro carattere sistemico, stanno obbligando gli organi politici istituzionali ad agire per una rivisitazione strutturale dei paradigmi finora vigenti.

L’attuale modello economico lineare improntato al consumo illimitato di risorse limitate, attraverso i combustibili fossili, ha determinato ecosistemi urbani sempre più fragili ed instabili, oltre che invivibili. Si pensi al suolo: erroneamente ritenuta risorsa rinnovabile, si è scoperto, invece, che non solo non lo è – occorrendoci quasi 500 anni per riprodurre 2,5 cm di terreno – ma anche che dalla sua indispensabile protezione e valorizzazione ecologica dipende il nostro futuro. Sebbene oggi la tendenza sia opposta.

“L’impermeabilizzazione del suolo (soil sealing) – scrive Paolo Pileri, docente di Pianificazione Territoriale al Politecnico di Milano – rappresenta la principale causa di degrado del suolo in Europa, in quanto comporta un rischio accresciuto di inondazioni, contribuisce al riscaldamento globale, minaccia la biodiversità, suscita particolare preoccupazione allorché vengono a essere ricoperti terreni agricoli fertili, aree naturali e seminaturali, e contribuisce – insieme allo sprawl urbano – alla progressiva e sistematica distruzione del paesaggio, soprattutto rurale”.

Come rivela da alcuni anni l’Ispra, per il consumo di suolo nel nostro Paese, che procede alla velocità di oltre 7 mq al secondo, ogni giorno perdiamo quasi 55 ettari di suolo agricolo. Si stima che il 7% della superficie italiana – pari a 21mila Kmq – sia impermeabilizzato, a causa della costruzione di edifici e infrastrutture. Una percentuale pari a quasi il doppio della media europea. E, se negli anni Cinquanta, questa espansione era comprensibile per un Paese da ricostruire dopo la stagione bellica, oggi, a fronte di un vistoso calo demografico e di un altrettanto chiaro processo di emigrazione delle più giovani generazioni, non lo è più. Tra i pochi Paesi europei che non si sono ancora dotati di una legge per limitare il consumo di suolo agricolo, l’Italia ha oltre 4 milioni di alloggi vuoti e migliaia sono i siti militari, ospedalieri e industriali dismessi, degradati o da bonificare.

A questo mosaico, tuttavia, occorre aggiungere un’altra tessera. L’eccessiva urbanizzazione, spesso realizzata abusivamente o in contesti geografici già precari come le lame o i letti dei fiumi, ha corroborato gli impatti del dissesto idrogeologico e sta imponendo l’elaborazione di innovativi piani “resilienti” per mitigare gli effetti dei cambiamenti climatici. E il principale provvedimento per “salvare” le città e chi le vive è, appunto, prevedere interventi strutturali di rigenerazione urbana.

Agendo sul patrimonio costruito e secondo un approccio integrato capace di decodificare la complessità odierna delle città, infatti, si otterrebbero una molteplicità di vantaggi: limitare la nascita di nuove periferie e il consumo di nuovo suolo agricolo; riqualificare, staticamente e funzionalmente, un patrimonio architettonico-storico anche di pregio molto spesso ubicato nelle zone più strategiche delle nostre urbanità; restituire, nei casi di demolizione e ricostruzione – secondo i dettami della bioarchitettura – di quegli organismi edilizi particolarmente vetusti e obsolescenti, una centralità agli spazi pubblici posti in dialogo con i nuovi edifici; valorizzare le energie rinnovabili e le soluzioni tecnologiche improntate all’efficienza energetica anche a scala di quartiere e non più rispetto al singolo volume; rinsaldare la coesione sociale attraverso i processi partecipativi dei cittadini “proattivi” che hanno la voglia di cooperare e condividere soluzioni sul riuso degli immobili degradati; creare potenzialmente nuova occupazione per giovani o disoccupati che costituiscono consorzi o cooperative per gestire questi patrimoni fornendo, contestualmente, un grande aiuto alle Amministrazioni Comunali in difficoltà per le varie restrizioni burocratiche-economiche vigenti.

La rigenerazione urbana, quindi, se affrontata con uno sguardo visionario proiettato al futuro e se declinata nel quotidiano mediante un approccio sistemico e multidisciplinare, favorisce l’inclusione sociale e promuove nuovi modelli di coesione territoriale da un lato; e incentiva, per dirla con le parole di Alex Langer, quella “conversione ecologica”, anche socio-culturale, delle nostre comunità, dall’altro.

In pochi anni, in tutto il Paese, migliaia sono stati gli interventi integrati di rigenerazione urbana connotati da una forte impronta ecologica che hanno avuto anche notevoli impatti sociali. Interventi che, sempre più spesso, vedendo il coinvolgimento diretto dei cittadini, stanno riscrivendo la storia dell’urbanistica contemporanea e rimodulando l’evoluzione della pianificazione territoriale. Operazioni, infine, che hanno restituito e che consegneranno, almeno nelle intenzioni più nobili, un’estetica e una piacevolezza visiva via via crescente alle nostre città nei prossimi anni.

Con l’auspicio che presto, nel mondo, l’Italia torni ad essere “il Bel Paese” per la riscoperta bellezza delle sue città.

Giuseppe Milano