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Contro i cambiamenti climatici l’architettura risponde con le case anfibie

Quando nel 2006 l’ex vicepresidente degli Stati Uniti d’America, Al Gore, realizzò il documentario “An Inconvenient Truth” (“Una scomoda verità”) sul riscaldamento globale (poi premiato, con la vittoria dell’Oscar, l’anno successivo), non poche furono le critiche che gli furono mosse per le tesi presuntamente catastrofiche esposte. Nell’intento non solo di depotenziarle, ma, spesso, anche di occultarle. Nonostante fosse stato diagnosticato scientificamente che tal fenomeno è indotto e provocato anche dalle trasformazioni antropiche degli ecosistemi e della biosfera.

In questo decennio, poi, a corroborare quelle “profezie”, sia negli Usa sia soprattutto nel Sud-Est Asiatico, diversi violenti tsunami e uragani e terremoti, oltre a provocare decine di migliaia di morti, hanno arbitrariamente ridisegnato la geografia di molti territori. E, probabilmente, solo questa inarrestabile e inedita serie di catastrofi naturali susseguitesi negli ultimi anni e nella loro progressiva intensità, ha spinto, dopo alcuni falliti tentativi, i leader politici dei 195 Paesi partecipanti alla Conferenza sul Clima di Parigi a ratificare un Patto per contenere l’aumento della temperatura entro 1,5 gradi pianificando azioni e strategie per mitigare le conseguenze irreversibili dei cambiamenti climatici. I cui effetti, soprattutto se non dovessero essere pensate e realizzate – gradualmente, ma rapidamente – politiche di mitigazione e di prevenzione, o se fossero rallentate dai nuovi equilibri geopolitici internazionali, tormenteranno sempre più le principali spazialità frequentate dall’Uomo: le città.

Perché sono le città il cuore della sfida climatica in tutto il mondo. Perché è nelle aree urbane che si produce la quota più rilevante di emissioni ed è qui che l’intensità e la frequenza di fenomeni meteorologici estremi sta determinando e rischia di determinare sempre più danni crescenti, alle persone e alle infrastrutture. Per queste ragioni, pertanto, non solo grandi capitali globali come Londra, Parigi e Sydney, ma anche polarità europee di alto prestigio come Copenaghen, Rotterdam ed Amsterdam, per il loro rapporto genetico con l’acqua, hanno deciso, già da anni, di rigenerare le proprie politiche urbanistiche orientandole alla sostenibilità per una connessione sentimentale con la natura.

L’architettura contemporanea, perciò, diventa una estensione della natura, in una relazione pacifica e non antitetica. L’esito di questo processo, ad oggi, sono le cosiddette “case anfibie”, le floating homes. Per quanto possano sembrare, tuttavia, ancora soluzioni avveniristiche o d’avanguardia, destinate ad una utenza ad oggi particolarmente ristretta e benestante, nel prossimo futuro non è escluso che questa tipologia costruttiva, con lo sviluppo ulteriore delle migliori tecnologie eco-compatibili, possa diffondersi enormemente e rivolgersi ad un pubblico più ampio. Diventando, perentoriamente, una scelta quasi obbligata per tutti quei territori – si pensi a Venezia – che potrebbero finire nel prossimo futuro, letteralmente e fisicamente, sott’acqua.

Ma come sono costruite queste “houseboats”, ossia “case galleggianti” come barche? Per una esaustiva risposta, ci affidiamo all’esperienza della società olandese “Dura Vermeer”, coordinatrice del progetto europeo “Floatec”, il cui obiettivo è quello di sviluppare abitazioni capaci di resistere alle inondazioni. Il gruppo olandese ha sviluppato un sistema che prevede l’impiego del polistirene espanso sinterizzato (EPS). Questo polistirolo modificato, molto leggero come materiale, è inserito in un multistrato tra le falde di composito e cemento creando moduli che possono essere facilmente assemblati in una struttura di sostegno sufficientemente grande, al pari dei blocchi di costruzione, su cui viene gettato successivamente il calcestruzzo. Su queste “boe”, poi, viene sistemato il volume architettonico, costruito, con modalità prefabbricata, in legno. Con questo materiale che viene sempre preferito non solo per la sua leggerezza e flessibilità, ma anche per le sue intrinseche proprietà fisiche-meccaniche che lo predispongono naturalmente a garantire il massimo comfort energetico domestico.

Un’altra esperienza virtuosa, la “WaterNest 100”, ci porta a Londra sebbene sia stata progettata dallo studio italiano di Giancarlo Zema. La costruzione, una casa di 100 mq con un diametro di 12 m e alta 4 m, è realizzata in legno ed alluminio. Può ospitare quattro persone e può produrre energia pulita sufficiente per coprire i consumi mediante i pannelli fotovoltaici presenti sulla copertura. Gli arredi interni, inoltre, sono ecologici e l’impianto di micro-ventilazione è del tipo a basso consumo. Per l’uso di materiali sostenibili, infine, l’abitazione è riciclabile fino al 98%.

A conferma, concludendo, che oggi niente è impossibile, per l’architettura, soprattutto quando ideata e realizzata in armonia con la natura e non contro di essa. E quando al centro vi è sempre il diritto dell’individuo dell’uomo a vivere in sicurezza e per una esistenza felice.

Giuseppe Milano